Molto spesso il neonato piange, ma appena preso in braccio smette quasi istantaneamente. Il primo pensiero che questo comportamento ci fa venire in mente, è che il piccolo innocente sia un pochino”paragnosto”. Bisogna però analizzare questo fenomeno in meniera un pò più seria. Il bisogno di contatto deriva dalle nostre origini ed è insito nel nostro dna, non a caso alcune patologie di tipo genetico (autismo ecc.) sono caratterizzate dal fatto che il bambino tollera poco l’interazione e il contatto con l’altro. Tornando alle origini sono stati effettuati degli studi sui nostri simili antenati “le scimmie”.
I cuccioli di scimmia stanno molto tempo attaccati alla pancia della mamma sia durante gli spostamenti, sia per protezione dai vari pericoli circostanti. Nel neonato è presente un riflesso, chiamato riflesso di moro, che deriva proprio da questo antico passato. Il riflesso consiste nel fatto che nel momento in cui il neonato è sottoposto ad uno stimolo o ad uno spostamento improvviso, il bambino prima estende arti superiori e inferiori e poi li flette verso il centro del corpo, come per aggrapparsi a qualcosa. Questo è un riflesso primitivo che con il passare dei mesi va svanendo. Quindi in caso di paura o pericolo il neonato è geneticamente portato a ricercare il contatto con un’ altra persona.
Inoltre un altro studio molto famoso, mette in evidenza l’importanza dell’attaccamento materno. L’esperimento è quello di john Bowlby che separò i cuccioli di scimmia dalla loro madre e li mise in una gabbia con all’interno una pseudo scimmia di metallo fredda, che forniva il cibo e un altra morbida e calda, ma che non forniva il cibo. I cuccioli di scimmia andavano dalla madre metallica quando avevano fame e dall’altra quando dormivano o sentivano il bisogno di sentirsi coccolati. Quinddi il bisogno di contatto e attaccamento esiste a prescindere dalla necessità di alimentarsi, ma è essa stessa una necessità, un bisogno che partecipa allo sviluppo e all’accrescimento del cucciolo.
Allora cosa si deve fare appena il bambino piange bisogna correre e quindi “viziare” il proprio bambino???
A parte queste ricerche le mamme si sono comportate differentemente nel corso degli anni. Infatti intorno agli anni 70, l’allattamento artificiale era diventato quasi la norma e si era sviluppato um tipo di accudimento che si basava sul concetto che i bambini intenzionalmente utilizzavano il pianto per controllare il comportamento dei genitori e quindi dovevano essere lasciati a piangere finchè non smettevano da soli e dovevano seguire degli orari e delle abitudini ben precise. Successivamente, si sviluppò un’altra tendenza parallelamente al fatto che si rivalutò l’importanza dell’allattamento materno (finchè uno ce l’ha!), si sviluppò un tipo di accudimento più prossimale, che favoriva il contatto del bambino con le figure genitoriali, che si proponeva di assecondare il bambino in ogni sua richiesta di bisogno e contatto. A tele riguardo è stato eseguito uno studio, tramite questionari e la redazione di un diario relativo al comportamento del bambino e dell’adulto che se ne prendeva cura, su 87 donne di Copenhagen 147 di Londra e sui loro neonati. Le donne londinesi erano divise in due differenti gruppi, dei quali uno effettuava un accudimento definito “prossimale”ovvero 15/16 ore al giorno di contatto fisico, in particolare tenere in barccio, allattare a richiesta e dormire con il bambino, mentre nell’altro gruppo del Regno Unito il tempo medio giornaliero di contatto ammontava a circa 8 ore e mezzo; queste madri tenevano i loro figli in braccio per meno tempo, sia quando erano svegli che quando erano addormentati e passavano meno tempo a contatto con il loro bambino anche durante gli episodi di pianto. Il gruppo danese si collocava in un punto intermedio fra questi due.
Sono stati effettuati rilievi a 10 giorni di vita dei neonati e poi ancora a 5 e 12 settimane. I neonati accuditi nel gruppo ” prossimale” hanno presentato il pianto per circa la metà del tempo rispetto all’altro gruppo del Regno Unito; questa tendenza si è riscontrata in tutte le fasce di età monitorate. Il pianto, nel gruppo londinese a minore contatto, non diminuiva con il passare dei giorni ma si manteneva ancora invariato alla dodicesima settimana. Gli episodi di coliche e pianto inconsolabile, in ogni caso, non sono stati differenti nei tre gruppi. I bambini accuditi con l’approccio prossimale si sono mostrati complessivamente meno irritabili, anche se presentavano il maggior numero di pianti notturni. Questi dati confutano l’ipotesi che una pronta risposta al pianto ne produca un rinforzo e un incremento. Gli autori sottolineano riguardo alle coliche che queste sono indipendenti dalle modalità di accudimento adottate dai genitori e concludono di prendere ad esempio il gruppo danese ai fini di ottenere la massima riduzione del pianto nel neonato. Tuttavia sarebbe forse opportuno andare oltre nell’analisi dei dati, riflettendo sul significato funzionale del pianto nel neonato.
Il fatto che questo comportamento, seppure rinforzato dalla risposta materna, non si incrementi, ci indica come non sia fine a se stesso ma abbia un significato funzionale. Il dato della maggiore frequenza di pianti notturni nei bambini che condividono il sonno con le loro madri, come già emerso da precedenti ricerche è correlato non ai risvegli ma alle poppate elicitate, la cui frequenza è un fattore critico, nelle prime settimane per l’instaurarsi dell’allattamento. Non a caso nello studio in questione il tasso di allattamento si è ridotto nel corso delle settimane del 65 per cento nel gruppo ad orari, contro il 32 per cento del gruppo di copenhagen e solo del 17 per cento nel gruppo prossimale.